Giochi sul/nel camino

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Giornalismi ludici…

Da qualche giorno sto rielaborando mentalmente i contenuti di un interessante articolo pubblicato dall’amico Liga sulle pagine dell’ultimo numero di ILSA. L’articolo tratta del giornalismo ludico in Italia o, per lo meno, di quello che dovrebbe essere, se esistesse.

Quello che mi accomuna con l’autore, a parte il fatto di scrivere sullo stesso giornale online (ma con molta meno perseveranza da parte mia, devo ammetterlo), è il fatto che entrambi ci troviamo in una posizione comune rispetto alle informazioni ludiche: non siamo editori e non siamo autori, ma scriviamo di giochi. Già, ma in che veste?

Liga senz’altro in quella del “ludologo” (un termine che linguisticamente mi crea qualche disagio, ma che rispetto, se non altro per la serietà che sta alla sua base), io – forse – in quella di giornalista prestato al mondo dei giochi.

Prestato gratuitamente, sia ben chiaro. Nel pochissimo tempo che ho a disposizione nella mia frenetica vita professionale riesco ogni tanto a scrivere piccoli commenti su argomenti che seguo da decenni e che – in ogni caso – mi danno ancora delle piacevoli sensazioni. Ma nient’altro.

E tutto questo perché? Perché in Italia non si vive e non si vivrebbe nel migliore dei casi di giornalismo ludico. Le redazioni del Corriere o del Sole24ore (e cito solo i due quotidiani nazionali che più mi sono vicini) sono insensibili a un argomento di questo tipo. E poi, diciamocelo chiaro – anche se lo fossero – l’argomento e il settore non permetterebbero di giustificare le spese per mantenere un “giornalista ludico” a tempo pieno in redazione, forse nemmeno un collaboratore saltuario. Vogliamo mettere un bel pezzo sull’ultima stagione della Scala o sulle possibili aperture commerciali della nuova Libia? Non ci sono Dominion o Agricola che tengano, ho paura.

Certo, qualche pezzo sul settore non è impossibile da piazzarlo. Ma un conto è parlare di mercato del giocattolo, di trend di crescita o di tendenze al ribasso del mercato dei giochi, un conto è parlare di Twilight Struggle, di Friedman Friese o della Days of Wonder da un punto di vista “ludico”.

L’argomento non interessa. Non interessa perché il mercato dei bg è espressione di una nicchia striminzita di mercato, il riflesso di un piccolo mondo di commercianti al minuto, di negozianti che hanno fatto il salto, ma che non rappresentano certo una lobby, nel senso politico/economico del termine. E se la lobby non ha la capacità di esprimere la sua pressione decisionale, si trasforma in una congregazione di conoscenti, che ama parlare di se stessa, impermeabile all’esterno e – inevitabilmente – per nulla interessante per i mezzi d’informazione. Quelli che contano, intendo dire.

L’impressione che ho sempre più viva è che il mondo italiano dei boardgames nel suo complesso sia il vero responsabile di questa mancanza d’interesse dei media, non solo quello delle aziende che lo caratterizzano. Guardandolo dall’esterno – con un atteggiamento che sia il più obiettivo possibile – sembra una piccola folla di soggetti che, come pesci rossi, cercano di trovare un loro spazio in una claustrofobica boccia di vetro di minuscole dimensioni. Una boccia che non viene quasi considerata dal mondo che sta fuori, vuoi per i numeri minimi che la caratterizza, vuoi per quell’atteggiamento intellettuale e snobistico che da sempre la identifica. Me ne accorgo di continuo e sempre più spesso. E sempre più spesso mi arrabbio e mi disgusto.

Se da un lato non c’è sensibilità commerciale da parte delle aziende (o la possibilità economica, come dice Liga) nel sostenere programmi di costante supporto giornalistico (i games test che ricevo dalle aziende annualmente si contano sulle dita di una mano), dall’altra c’è, in chi fa parte di questo mondo, un’indubbia reticenza nel tentare di uscire in modo deciso dalla boccia di vetro di cui ho parlato.

Il risultato lo conosciamo bene: sono le congregazioni, le associazioni di intellettuali del gioco, degli appassionati riuniti a gruppo che accettano solo con estrema riluttanza le presenze estranee. Anche i giornalisti.

Mi è successo personalmente solo qualche giorno fa.

E allora, mi chiedo, perché stupirsi se il Corriere della Sera o La Stampa non hanno una rubrica dedicata ai boardgames? Basta guardarsi intorno per capirlo.